E’ lecito l’accordo con cui il lavoratore abbia pattuito con il proprio datore di lavoro una durata minima del rapporto

09 gennaio 2017

E’ lecito l’accordo con cui il lavoratore abbia pattuito con il proprio datore di lavoro una durata minima del rapporto.

 

In una recente pronuncia, la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto la liceità della pattuizione individuale con la quale le parti abbiano previsto una durata minima del rapporto con la conseguenza che, in caso di recesso anticipato di una delle parti, al di fuori delle ipotesi di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., la parte recedente è tenuta a corrispondere il risarcimento del danno nei confronti della parte non recedente, nei termini indicati dalla penale inserita nell’accordo medesimo.

Nella fattispecie in questione una lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna che aveva ritenuto la legittimità del patto di stabilità stipulato dalla stessa lavoratrice con la Banca sua datrice di lavoro con condanna della medesima lavoratrice al pagamento della penale concordata tra le parti.

Con il primo motivo del ricorso per cassazione la lavoratrice lamentava l’erroneità della sentenza della Corte territoriale la quale aveva ritenuto valido il patto di stabilità (con il quale entrambe le parti si impegnavano per un triennio a non recedere dal rapporto di lavoro, salvo il ricorrere di giusta causa) nonostante l’avvenuta sua impugnazione ex art. 2113 c.c., e l’evidente sproporzione di forza contrattuale tra la ricorrente e l’istituto di credito. Inoltre, sempre secondo il medesimo motivo del ricorso, il patto con cui si autorizzava la banca a recuperare l’importo della penale anche mediante compensazione con le spese di fine rapporto della ex dipendente era da considerarsi nullo perché in frode alla legge e lesivo del diritto indisponibile di cui all’art. 545, comma 4, cpc, norma che, nel vietare la pignorabilità oltre il quinto delle retribuzioni, così avrebbe vietato la compensazione con pretesi crediti vantati dal datore di lavoro.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21646 del 26.10.2016 nel ritenere infondato il suddetto motivo, ha spiegato che il lavoratore subordinato, come ha la facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro, così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dell’ipotesi di giusta causa di recesso di cui all’art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo di durata minima.

Di conseguenza, il caso in oggetto, secondo la Corte, è al di fuori della fattispecie prevista dall’art. 2113 c.c., della rinuncia o transazione su diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge. Né ricorre una delle ipotesi in cui l’impugnabilità ex art. 2113 c.c., della pattuizione relativa ad un diritto disponibile del lavoratore è estesa, dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto rientrante in un più ampio contesto negoziale, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall’autonomia collettiva ove si tratti di clausole strettamente interdipendenti fra di loro. Infatti, al patto di stabilità ed alla relativa clausola penale, si accompagnava soltanto la promozione della lavoratrice ad un livello di inquadramento superiore e ciò, come spiega la Corte di Cassazione, non implica alcuna rinuncia o transazione a precedenti diritti derivanti da norme inderogabili.

Inoltre, il Giudice delle Leggi, con la sentenza che ci occupa, disattende anche la censura basata sulla sproporzione di forza contrattuale tra le parti del contratto, sia perché essa non è mai motivo di invalidità (ma, semmai di mera rescindibilità nei casi e nei limiti di cui agli artt. 1447 e 1448 c.c.), sia perché il divieto di compensazione posto dall’art. 1246 c.c., n. 3, in relazione ai crediti impignorabili, si riferisce alla sola compensazione propria e non anche alla c.d. compensazione impropria, che ricorre quando le reciproche ragioni di debito/credito nascono da un unico e non distinti rapporti giuridici.

Nella vicenda in esame il rapporto era unico (quello di lavoro) e da esso nascevano le reciproche ragioni di debito/credito.

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