Il diritto di critica del dipendente nei confronti dell’impresa.
Il diritto del lavoratore di esprimere il proprio dissenso o di contrapporre le proprie idee e convincimenti, vale a dire di esercitare il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, costituisce specificazione la libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente riconosciuta dall'art. 21 Cost. e nuovamente affermata nell'art. 1 dello Statuto dei lavoratori.
E’ però necessario capire entro quali coordinate il diritto di critica possa essere esercitato: occorre infatti trovare un punto di equilibrio tra la protezione dell'onore e della reputazione dell'impresa oggetto della critica e l'esercizio della libertà di opinione del lavoratore.
Tra le prime sentenze della Suprema Corte sul tema ve ne è una piuttosto risalente, del 25 febbraio 1986, n. 1173. La Corte pone per la prima volta l'accento sulla natura personale delle prestazioni e sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione che caratterizzano il rapporto di lavoro subordinato ed applica all'esercizio del diritto di critica nell'ambiente di lavoro gli stessi limiti già individuati in materia di diffamazione a mezzo stampa (cfr. anche Cass., Sez. Un., 18 ottobre 1984 n. 5259, in Foro It., 1984, I, col. 2711).
In particolare, per il legittimo esercizio di critica era ritenuto necessario che: i fatti esposti corrispondessero a verità; che la critica fosse mossa per realizzare un interesse giuridicamente rilevante; che le modalità di diffusione fossero congrue a difendere il predetto interesse giuridicamente rilevante.
La recente sentenza della Corte di Cassazione del 26 ottobre 2016, n. 21649, si pone nel solco di tale orientamento. Con tale pronuncia, infatti, la Corte di Cassazione ha riconosciuto l'illegittimità del recesso aziendale nei confronti di un lavoratore licenziato per aver “denunciato” alla datrice alcuni comportamenti scorretti ed offensivi posti in essere dal superiore gerarchico nei suoi confronti, allegandovi un parere pro veritate rilasciato da avvocato penalista.
La Cassazione ha chiarito che, nel caso di specie, il prestatore si era limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare così, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva. Il lavoratore aveva peraltro agito con modalità ed in termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico, senza determinare alcun pregiudizio all'impresa.
Con la “denuncia” alla datrice di lavoro, il dipendente, non solo aveva legittimamente esercitato il proprio diritto di critica nei confronti del superiore, ma, al tempo stesso, aveva sollecitato l'attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c. (concernenti la direzione dell’impresa da parte del datore di lavoro e l’obbligo del lavoratore di rendere la prestazione secondo diligenza), in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti nei luoghi di lavoro anche al fine di evitare conflittualità .
Peraltro, nella parte finale della “denuncia”, il dipendente aveva rinnovato il proprio impegno di collaborazione e fedeltà nei confronti dell'azienda, rendendo in tal modo ancor più palese la illegittimità del recesso per asserita giusta causa, ovvero per una causa tale da non poter consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro.
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