Chiarimenti della Cassazione su licenziamento discplinare e insussistenza del fatto

07 novembre 2016

Nuovi chiarimenti dalla Cassazione su licenziamento disciplinare e «insussistenza del fatto»

Con un recente arresto, la Suprema Corte è tornata nuovamente a pronunciarsi sulla questione dell’interpretazione dell’inciso «insussistenza del fatto contestato» contenuto nel comma 4 dell’art. 18 Stat.lav. come modificato dalla legge n. 92/2012 (c.d. legge Fornero).

La problematica è nota. La riforma del 2012, per il caso del licenziamento disciplinare illegittimo intimato da imprese rientranti nell’ambito d’applicazione della norma statutaria, ha limitato la reintegrazione del lavoratore nel proprio posto a due sole ipotesi (entrambe previste dal citato comma 4): quella in cui il fatto posto a base del provvedimento espulsivo rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili; quella di «insussistenza del fatto contestato». In tutti gli altri casi (art. 18, comma 5 Stat.lav.) in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, al lavoratore, nonostante l’illegittimità del licenziamento, spetta solamente un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (ma il rapporto di lavoro è dichiarato definitivamente estinto alla data del licenziamento). Insomma, in tutti i casi non rientranti nelle due citate ipotesi del comma 4, il recesso disciplinare, ancorché illegittimo, comporta la cessazione del rapporto; quindi, un atto invalido produce comunque gli effetti propri dell’atto valido (in barba ai principi privatistici).

Proprio perché nel nuovo art. 18 Stat.lav. la reintegrazione pare essere divenuta una conseguenza eccezionale del licenziamento disciplinare illegittimo, è fondamentale definire al meglio i casi di operatività della tutela reale e, in particolar modo, quello dell’insussistenza del fatto contestato.

La questione è poi ancor più rilevante se si considera che, nella disciplina sanzionatoria – contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 – del licenziamento illegittimo nel c.d. contratto a tutele crescenti, l’unico caso (fatta eccezione per quello di licenziamento discriminatorio) in cui può trovare applicazione la tutela reintegratoria è quello in cui sia direttamente dimostrata in giudizio la «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015).

Quanto appena detto spiega perché le pronunce giurisprudenziali relative alla «insussistenza del fatto contestato» di cui al comma 4 dell’art. 18 Stat.lav. siano di cruciale importanza ancora oggi, nonostante la tutela della norma statutaria abbia un campo di applicazione che va ad esaurirsi. Esse (le pronunce), infatti, si riverberano anche sull’interpretazione dell’art. 3, d.lgs. n. 23/2015 e di ciò i giudici paiono essere consapevoli.

Ebbene, come anticipato, con sentenza 20 settembre 2016, n. 18418, la Cassazione si è nuovamente espressa sul significato da attribuire all’inciso «insussistenza del fatto contestato» ex art. 18 Stat.lav.

La Corte, dando seguito a quanto dalla stessa affermato in una precedente pronuncia (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540), ha chiarito come non sia plausibile che il legislatore, con il summenzionato inciso, abbia voluto negare la tutela reale nel caso di fatto sussistente nella sua materialità, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione. Non è sufficiente, pertanto, che il fatto si sia verificato nella realtà fenomenologica (ad esempio, il lavoratore ha battuto le mani), ma è necessario che la condotta del lavoratore sia connotata da antigiuridicità (nell’esempio fatto, il battere le mani non è chiaramente un fatto illecito e, quindi, il suo effettivo verificarsi nella realtà, non può comportare l’esclusione della tutela reintegratoria).

Si può quindi dire che il fatto che deve esistere affinché sia esclusa la tutela reale non è il “fatto - comportamento”, ma il “fatto - inadempimento”.

Dunque, il fatto deve ritenersi insussistente non solo quando è tale nella sua materialità, ma anche quando è privo di rilievo giuridico, con la precisazione che l’apprezzamento sulla sua rilevanza giuridica deve passare anche attraverso l’indagine sull’elemento soggettivo. Ne discende che – per esempio – il fatto del lavoratore che distrugge incolpevolmente un importante documento aziendale è da ritenersi insussistente per irrilevanza giuridica, stante la mancanza di dolo o colpa.

Ad ulteriore chiarimento della ratio decidendi, la Cassazione aggiunge poi che l’apprezzamento dell’antigiuridicità non deve essere formalistico, ma sostanziale, cioè con riguardo al concreto svolgimento del rapporto di lavoro. Non è, difatti, possibile – sempre secondo il Supremo Collegio – «ritenersi relegato al campo del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito dell’antigiuridicità».

Così, i fatti che – nel caso di specie – avevano dato luogo al licenziamento sono stati ritenuti dalla Corte privi del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione. Infatti, l’aver usato modi maleducati nei confronti di personale che il dipendente aveva il compito di formare, l’aver rifiutato di rinegoziare il superminimo e l’avere espresso le proprie doglianze per essere stato demansionato, sono stati reputati fatti che, in base ad una valutazione sostanziale, non potevano essere reputati antigiuridici.

 

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