“La dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all'accertamento di un ritardo notevole e non giustificato della contestazione dell'addebito posto a base dello stesso provvedimento di recesso, ricadente ratione temporis nella disciplina dell'articolo 18 della legge 300/1970 così come modificato dal comma 42, dell'articolo 1 della legge 92/2012 (riforma Fornero), comporta l'applicazione della sanzione dell'indennità come prevista dal quinto comma dello stesso articolo 18 della legge n. 300/1970”. Questo è il principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30985, pubblicata lo scorso 27 dicembre. Ma andiamo con ordine.
La natura ambivalente del vizio di intempestività che può colpireun licenziamento disciplinare si ripercuote inevitabilmente sull'individuazione concreta del regime sanzionatorio applicabile nel caso specifico, potendo tale vizio dar luogo astrattamente all’applicazione di un rimedio solo indennitario, o al contrario, arrivare all’applicazione del più forte rimedio reintegratorio, ove l’intempestività venga ritenuta indice di irrilevanza disciplinare del fatto posto a base del recesso.
Di tale ambivalenza, la Corte ha acquisito piena consapevolezza, tanto da dare atto, nella lunga motivazione della sentenza qui commentata, dell'obiettiva esistenza di un contrasto di orientamenti interno alla stessa Corte di Legittimità. In particolare, sono le pronunce n. 23669/2014 e n. 14324/2015 in punto di licenziamento intempestivo, ad aver ritenuto applicabile la sola tutela indennitaria onnicomprensiva, poi smentite entrambe dalla recentissima sentenza n. 2513/2017 che, equiparando il fatto contestato con notevole ritardo (di oltre un anno e mezzo dalla effettiva conoscenza) ad un fatto disciplinare insussistente, ha reintegrato il dipendente nel posto di lavoro applicando la tutela prevista dall’ormai noto art. 18, comma 4.
È nel quadro appena descritto che la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la quale, escludendo (fin troppo rapidamente) che la tardività della contestazione possa essere sanzionata attraverso il rimedio della tutela reale, si è concentrata in particolare sulla “forma di tutela indennitaria applicabile, se cioè quella forte, di cui al comma 5, o quella debole, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6”. In altre parole, per la Corte non c’è spazio per la reintegra; la conseguenza spettante a fronte di un recesso viziato da intempestività (anche se eccessiva) può essere solo e soltanto economica. Si legge, infatti, nella motivazione che il rilevante ritardo nella contestazione non è contemplato tra le possibili cause di nullità o inefficacia espressamente previste dal primo comma del art. 18 e neanche può essere ricondotto al regime della tutela reintegratoria attenuata, che prepresuppone che la mancanza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa sia dovuta alla insussistenza del fatto contestato ovvero alla sua ascrivibilità alle condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili. Se quanto scritto per la Corte è vero, è altrettanto vero che il rispetto del principio dell’immediatezza e tempestività della contestazione e/o del recesso “risiede in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell'inizio del procedimento disciplinare”.
La violazione della procedura di cui all'art. 7 Statuto dei lavoratori, che comporta l'applicabilità della tutela indennitaria debole (comma 6, art. 18), è da intendere, ai fini sanzionatori che qui rilevano, come violazione delle regole che scandiscono le modalità di esecuzione dell'intero iter procedimentale nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale di carattere sostanziale della tempestività della contestazione quando assume il carattere di ritardo notevole e non giustificato è idoneo a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato di espletare in modo pieno una difesa effettiva nell'ambito del procedimento disciplinare, garanzia, quest'ultima, che non può certamente essere vanificata da un comportamento del datore di lavoro non improntato al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Invero, conclude e specifica la Corte, “l'inerzia del datore di lavoro di fronte alla condotta astrattamente inadempiente del lavoratore può essere considerata quale dichiarazione implicita, per facta concludentia, dell'insussistenza in concreto di alcuna lesione del suo interesse. E se è vero che ciascun contraente deve restare vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti, la successiva e tardiva contestazione disciplinare non può che assumere il valore di un inammissibile "venire contra factum proprium", la cui portata di principio generale è stata ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità argomentando proprio sulla scorta della sua contrarietà ai principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.. Con la conseguenza che, sussistendo l'inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendo tale provvedimento preceduto da una tempestiva contestazione disciplinare a causa dell'accertata contrarietà del comportamento del datore di lavoro ai canoni di correttezza e buona fede, la conclusione non può essere che l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, comma 5”.
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