Fondo di Garanzia INPS, la strada (a volte tortuosa) per ottenere il pagamento del TFR in caso di insolvenza del datore di lavoro

15 novembre 2018

“La verifica da parte del Tribunale fallimentare all'esito dell'istruttoria prefallimentare della non fallibilità dell' imprenditore ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 15, funge da presupposto, unitamente all'insufficienza delle garanzie patrimoniali a seguito dell'esperimento della esecuzione forzata, per l'intervento dell'INPS Fondo di garanzia per il pagamento del TFR e dei crediti di lavoro di cui al D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, art. 2".

Questo è quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con la recente ordinanza n. 21734, del 06.09.2018 in materia di accesso al Fondo di Garanzia. Organismo, quest’ultimo, istituito presso l'Inps per garantire al lavoratore il pagamento del trattamento di fine rapporto e delle ultime tre mensilità non pagate dal datore di lavoro in caso d'insolvenza. Ma andiamo con ordine. 

La pronuncia in commento interviene su un aspetto assai delicato della disciplina che regola il funzionamento della tutela del trattamento di fine rapporto dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, uniformandosi al più recente orientamento che ha condiviso una interpretazione più estensiva dei presupposti di intervento dell'apposito fondo di garanzia costituito presso l'Inps. Come noto, la L. n. 297 del 1982 - successivamente integrata con il D.Lgs. n. 80/1992 che ha esteso la medesima tutela ai crediti di lavoro diversi dal trattamento di fine rapporto - costituisce diretta emanazione della direttiva CE n. 987/1980, la quale all'art. 2, par. 1, prevedeva l'intervento del fondo di garanzia in caso di apertura di un procedimento previsto dalla legislazione nazionale volto a soddisfare collettivamente i lavoratori ovvero in caso di chiusura definitiva dell'impresa e di insufficienza dell'attivo disponibile per giustificare l'apertura del procedimento.

Nel recepire i contenuti della direttiva comunitaria, l' art. 2 della L. n. 297 del 1982 ha stabilito che il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia può avvenire soltanto in caso di apertura della procedura concorsuale (comma 1 ss.) ovvero, “in caso di datore di lavoro non soggetto alle disposizioni del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 “, qualora a seguito dell'”esperimento dell'esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti” (comma 5).

Sulla interpretazione di tale ultima previsione la Suprema Corte ha assunto solo negli ultimi anni una posizione nettamente contraria a quella più rigorosa e formalistica formulata dall'Inps, il quale, a onor del vero, si è ormai uniformato al diverso orientamento dei giudici di legittimità con un'apposita circolare che ha completamente rivisto le precedenti posizioni dell'ente previdenziale (circ. n. 32/2010).

La questione - come anticipato - riguardava la definizione di "datore di lavoro non soggetto alle procedure concorsuali" che, secondo l'Inps, inizialmente, doveva essere individuato esclusivamente nel datore di lavoro tecnicamente escluso dall'applicazione della legge fallimentare, sicché in caso di datore di lavoro, pur in teoria soggetto a procedura fallimentare ma di fatto privo dei requisiti necessari alla dichiarazione di fallimento per aver cessato l'impresa da oltre un anno o per inutilità della procedura stessa (questo è il caso, per quel che qui interessa, dell’esiguità dell’esposizione debitoria), l'ente previdenziale negava al lavoratore la possibilità di avvalersi dell'intervento di tutela del fondo di garanzia (circ. Inps n. 53/2007 e n. 74/2008).

In senso contrario si sono espressi invece i giudici di legittimità, i quali, con due pronunce successive, hanno stabilito che una “lettura della legge nazionale orientata nel senso voluto dalla direttiva può consentire, secondo una ragionevole interpretazione, l'ingresso ad un'azione nei confronti del fondo di garanzia, quando l'imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e tuttavia l'esecuzione forzata si riveli infruttuosa” (così,Cass. 19 gennaio 2009, n. 1178 ), dovendosi in ogni caso escludere che il lavoratore sia tenuto all'esperimento di un tentativo di esecuzione che superi i limiti dell'ordinaria diligenza quando la mancanza o l'insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore possano considerarsi provate in relazione alle particolari circostanze del caso concreto. Ne deriva, come ribadito dalla pronuncia in commento, che l'espressione “datore di lavoro non soggetto alle disposizioni del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 di cui all' art. 2, comma 5, della L. n. 297 del 1982 deve essere interpretata nel senso che al lavoratore deve essere riconosciuta la possibilità di agire nei confronti del fondo di garanzia per ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto anche laddove il datore di lavoro di fatto non risulti più soggetto al fallimento secondo le previsioni di cui agli artt. 1011 e 15 della legge fallimentare, come riformata dal D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 ovvero quando sia trascorso più di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese o quando risulti che il complessivo ammontare dei debiti scaduti e non pagati accertati nel corso dell'istruttoria prefallimentare è inferiore a Euro 30.000. In quest’ultimo caso, però, specifica la Corte, non è sufficiente “saltare” la fase processuale per la sola “esiguità dell’esposizione debitoria”, ma è al contrario indispensabile – ai fini dell’accoglimento della richiesta – chiedere al Tribunale l’accertamento della sussistenza o meno dei requisiti previsti per la dichiarazione di fallimento ed ottenere eventualmente una prevedibile sentenza di rigetto.  

 

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