GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO E CONDOTTE EXTRA-LAVORATIVE
Da sempre si discute se nel concetto di giusta causa ex art. 2119 cod.civ. debbano ricomprendersi solo gli inadempimenti connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa oppure se, al contrario, la nozione debba abbracciare anche fatti estranei all’attività oggetto del contratto di lavoro.
A fronte di due contrapposti orientamenti sviluppatisi in dottrina, la giurisprudenza si è dimostrata pressoché univoca e costante nel tenere un approccio votato all’empirismo, quantomeno a partire dagli anni ’70 in poi.
Secondo la Suprema Corte, dovendosi configurare la giusta causa di licenziamento come «grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e in particolar modo dell’elemento fiduciario che deve sussistere tra le parti», la valutazione da parte del giudice circa la legittimità del licenziamento in tronco deve avvenire «non con riguardo al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti» del rapporto e «risolversi in un giudizio di congruità della sanzione espulsiva, per la insufficienza di qualunque altra a tutelare l’interesse del datore» (così, Cass. 4 settembre 1999, n. 9354; ma nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 13 marzo 2013, n. 6354, Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013, Cass. 14 luglio 2001, n. 9590).
Il “principio di concretizzazione della giusta causa” elaborato dalla giurisprudenza di legittimità postula dunque che l’attenzione del giudicante si rivolga alle caratteristiche che in concreto presenta il rapporto di lavoro. Si tratta, in particolare, di valutare la natura e la qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, le mansioni espletate dal dipendente, il grado di fiducia da queste richiesto; il tutto allo scopo ultimo di comprendere se il comportamento del lavoratore abbia determinato un sì grave pregiudizio alla fiducia del datore di lavoro da determinare l’impossibilità di una prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
Di conseguenza, una condotta tenuta dal lavoratore nella propria vita privata, di regola irrilevante nel rapporto con il datore di lavoro, può integrare un’ipotesi di giusta causa di licenziamento qualora, tenuto conto di tutti gli aspetti concreti di cui si è detto, sia tale da scuotere la fiducia del datore, nel senso di porre in dubbio la correttezza dell’adempimento futuro (Cass. 18 settembre 2014, n. 19684, Cass. 27 febbraio 2014, n. 4723, Cass. 8 agosto 2011, n. 17092).
In un caso recentemente portato all’attenzione della Corte di Cassazione (Cass. 9 marzo 2016, n. 4633) un lavoratore era stato sottoposto a processo penale perché trovato in possesso, fuori dai locali aziendali, di 34 grammi di cocaina destinati allo spaccio, con applicazione della detenzione domiciliare. Nel periodo di detenzione egli aveva giustificato l'assenza dal posto di lavoro con certificato medico. In ragione di ciò veniva licenziato.
Egli impugnava il licenziamento sostenendo in particolare che non fossero sanzionabili dal datore di lavoro in sede disciplinare fatti verificatisi fuori dal luogo di lavoro.
La Suprema Corte – confermando la decisioni delle corti di merito – ha però affermato la legittimità del licenziamento, sostenendo – in linea con il proprio orientamento maturato da anni – che anche una condotta illecita estranea all'esercizio delle mansioni del lavoratore può avere un rilievo disciplinare, poiché il lavoratore è assoggettato non solo all'obbligo di rendere la prestazione, bensì anche all'obbligazione accessoria di tenere un comportamento extralavorativo che sia tale da non ledere ne' gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro ne' la fiducia che, in diversa misura e in diversa forma, lega le parti del rapporto di durata. Detta condotta illecita comporta la sanzione espulsiva se presenti caratteri di gravità, che debbono essere apprezzati, tra l'altro, in relazione alla natura dell'attività svolta dall'impresa datrice di lavoro ed all'attività in cui s'inserisce la prestazione resa dal lavoratore subordinato.
Ciò detto in via generale, spetta poi al giudice di merito apprezzare se e in che misura la condotta extralavorativa abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro. Tale valutazione – ha rilevato la Corte – è stata puntualmente compiuta dalla Corte territoriale, che ha affermato che la perdita della fiducia del datore di lavoro era stata correttamente collegata dal Tribunale al notevole quantitativo di droga trovato in possesso del lavoratore; in ragione del suo valore di mercato, induceva a ritenere sia l'abitualità dell'attività delittuosa sia l'incompatibilità con i suoi redditi da lavoro dipendente, e quindi rendeva concreto il pericolo che il lavoratore potesse commettere reati della stessa natura anche all'interno del luogo di lavoro
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