L’articolo 32 della Costituzione garantisce il diritto alla salute, dal quale discendono il dovere posto a carico del datore di lavoro di astenersi dal tenere comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore e il suo obbligo di prevenire e neutralizzare tali rischi (ex articolo 2087 Codice Civile). Per rispettare detti obblighi, il datore di lavoro è quindi tenuto anche ad impedire e contrastare il fenomeno del c.d. mobbing.
Sebbene non esista nell’ordinamento italiano una definizione normativa del mobbing, gli psicologi del lavoro lo definiscono come una situazione lavorativa in cui una o più persone (c.d. mobbizzato) vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori (c.d. mobber), siano essi colleghi o superiori. Il mobbizzato si trova generalmente nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e, a lungo andare, accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore, che possono portare anche a invalidità psicofisiche.
La Giurisprudenza definisce il concetto di mobbing come una pluralità di condotte attive e/o omissive, illecite e non, ma in ogni caso di maltrattamento, poste in essere nell’arco di un’apprezzabile lasso di tempo da una o più persone nel contesto lavorativo, unificate da un medesimo disegno o scopo, consistente nell’ostacolare o addirittura nell’eliminare le potenzialità di realizzazione della vittima nell’ambiente lavorativo. Affinché la fattispecie sia realizzata, detti elementi devono tutti sussistere nel caso concreto.
In una recente sentenza del 27 gennaio 2017, la Corte di Cassazione ha fatto applicazione di quanto precede. Il caso riguardava un agente di polizia municipale che aveva subito abusi e umiliazioni sul proprio luogo di lavoro. La Corte Suprema ha condannato il Comune a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale subito, sia alla salute (c.d. danno biologico), per aver il lavoratore riportato una sindrome reattiva di grado medio, sia all’immagine e alla professionalità.
In questa sentenza, i Giudici hanno ritenuto che si fosse verificato uno svuotamento di fatto delle mansioni del dipendente, che era stato assegnato a compiti esecutivi ed estremamente semplici per più di un anno. Durante tale periodo, infatti, il lavoratore era stato lasciato inattivo, isolato, privo di scrivania e di ufficio, e pertanto costretto a sostare in piedi nel corridoio. Successivamente, era stato trasferito agli uffici cimiteriali, senza nessuna spiegazione sui compiti da svolgere in tale sede. I Giudici, invero, hanno rilevato che detto luogo di lavoro fosse lesivo della dignità del lavoratore: la stanza che costituiva l’ufficio presentava varie suppellettili ed oggetti che facevano pensare in maniera inequivoca ad una camera mortuaria annessa al cimitero. Infine, la sentenza precisa che tale trasferimento aveva sia una funzione punitiva, rispetto ad alcune rimostranze effettuate dal dipendente, sia rappresentativa di un messaggio chiaramente mobbizzante che né lui né gli altri colleghi avrebbero potuto fraintendere. Alla luce di tali circostanze, i Giudici di primo e secondo grado, confermati dalla Suprema Corte, hanno ritenuto il mobbing sussistente.
Occorre precisare che, sotto il profilo dell’onere della prova, il mobbing si iscrive nell’ambito della responsabilità contrattuale ex articolo 1218 del Codice Civile. Perciò, è il lavoratore che assume di essere stato mobbizzato a dover provare i fatti/atti/le condotte addebitati al datore di lavoro, nonché l’intento persecutorio ed il nesso causale con il danno subito. Nel caso di specie, il dipendente pubblico aveva provato i fatti addebitati al datore tramite le testimonianze di alcuni suoi colleghi. Ove il lavoratore raggiunga la prova predetta, appartiene al datore di lavoro l’onere di provare la non imputabilità del comportamento, ovvero, il fatto di aver adempiuto al proprio obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
Sebbene in questa fattispecie il Giudice abbia ritenuto sussistente il mobbing, nella pratica, gli elementi che lo caratterizzano sono per la vittima spesso difficili da dimostrare. Per risolvere tale difficoltà, la Giurisprudenza ha elaborato anche il concetto di straining, il quale, a differenza del mobbing, non richiede che le condotte vessatorie siano continuative, del ché l’onere della prova a carico della vittima ne risulta in parte agevolato.
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