Il datore è tenuto a garantire il lavoratore dal rischio rapina

25 luglio 2016

Il datore è tenuto a garantire il lavoratore dal “rischio rapina” ogni volta che il luogo di lavoro sia in una zona che può considerarsi “a rischio”.

L’art. 2087 c.c. prevede l'obbligo in capo al datore di lavoro di adottare tutte le misure atte a tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del lavoratore e tale obbligo si estrinseca anche nel dovere di prevenire eventuali rapine sul luogo di lavoro attraverso l’utilizzo di tutti i mezzi di tutela concretamente attuabili secondo la tecnologia disponibile. Questo quanto di recente affermato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18 febbraio 2016 n. 3212, secondo un orientamento invero consolidato della Corte in tema di responsabilità per “rischio rapina”, da intendersi insito in alcune attività lavorative, quali quelle svolte in banca o negli uffici postali, implicanti maneggio di denaro.
Nel caso di specie una lavoratrice, dipendente di Poste Italiane S.p.a., era stata coinvolta in una rapina a mano armata all’interno dell’ufficio presso cui prestava servizio riportando da tale evento notevoli disturbi post-traumatici da stress ed in ragione di tali disturbi aveva agito nei confronti del proprio datore di lavoro per il risarcimento del danno biologico e morale, sostenendo che questi non aveva predisposto tutte le misure idonee a garantire una effettiva protezione sul luogo di lavoro. Al momento della rapina, infatti, l’ufficio era sprovvisto di un sistema di videosorveglianza e/o di allarme e le finestre, seppur l’ufficio si trovasse al primo piano con un affaccio su un binario ferroviario della Stazione Termini a Roma, non erano blindate, né dotate di grate, né comunque sufficientemente presidiate.
Entrambi i giudizi di merito si concludevano con la condanna nei confronti dell’azienda al risarcimento dei danni in favore della lavoratrice. Poste Italiane presentava dunque ricorso per Cassazione lamentando che le misure di tutela adottate erano assolutamente appropriate a quelle necessarie in un ufficio postale, anche alla luce di quanto stabilito dal proprio regolamento interno. Tuttavia, la Suprema Corte rigettava il ricorso.
Con particolare riferimento all'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità psicofisica dei propri dipendenti, la Cassazione ha ritenuto che tale obbligo riguardi l’adozione, non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a contrastare un'attività criminosa di terzi qualora la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione a scopo di lucro sia insita nella tipologia dell'attività esercitata alla luce della movimentazione di somme di denaro, nonché qualora vi siano state reiterate rapine in un determinato arco temporale (nello stesso senso cfr. C. Cass. n. 3650/2015; C. Cass. n. 7405/2015). Ciò sia in ragione dei rilievo costituzionale del diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., sia alla luce dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) che costituiscono le basi del rapporto di lavoro.
Con la suddetta pronuncia, la Corte ha ribadito, peraltro, che la responsabilità del datore di lavoro derivante dalla violazione dell’art. 2087 c.c. rientra nell'ambito della responsabilità di tipo contrattuale con il conseguente onere della prova a carico del datore di lavoro.
Secondo la Corte, infatti, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento dei danno patito ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento, il danno subito ed il nesso di causalità tra l'inadempimento e il danno, mentre per quanto riguarda la responsabilità del datore di lavoro questa è sottoposta alla presunzione di cui all’art. 1218 c.c. secondo cui il debitore (in tal caso inteso come datore di lavoro) è liberato dalla responsabilità solo qualora dimostri che l'inadempimento o il ritardo sono conseguenza di una causa a lui non imputabile.
In sostanza, spetta al datore di lavoro dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (cfr. C. Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; C. Cass. 19 luglio 2007, n. 16003).
Stante quanto sopra, la mancanza di telecamere funzionanti sul luogo di lavoro e di inferiate alle finestre è stata considerata idonea a configurare la violazione degli obblighi di sicurezza, con il conseguente diritto della lavoratrice al risarcimento del danno subito.

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