La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 1556 del 23 gennaio 2020, ha affermato che la reiterata e sistematica assegnazione del lavoratore a mansioni superiori, pur se frazionata e non continuativa, fa comunque scattare la promozione ai sensi dell’art. 2103 c.c. qualora la stessa sia stata motivata da esigenze strutturali dell’impresa.
In particolare, secondo la Corte, in tali casi per ottenere il riconoscimento dell’inquadramento superiore è sufficiente la prova di una iniziale programmazione da parte del datore dei molteplici incarichi e della predeterminazione utilitaristica di tale comportamento: tali elementi possono evincersi da circostanze obiettive quali per esempio, oltre alla frequenza ed alla sistematicità delle assegnazioni, la rispondenza delle stesse ad una esigenza strutturale del datore di lavoro tale da rivelare l’utilità per la organizzazione aziendale della professionalità superiore.
Come noto, l'art. 2103 c.c. prevede che, nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo che sia decorso il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.
La giurisprudenza ha più volte precisato che il lavoratore matura il diritto alla promozione definitiva se l’esercizio delle mansioni superiori è stato pieno, nel senso che è necessario l’espletamento di tutte le mansioni che caratterizzano una qualifica superiore (v. Cass. n. 20660/2005); effettivo e soprattutto continuativo entro il limite di sei mesi.
Al fine di eludere la normativa in materia potrebbe quindi accadere che il lavoratore venga adibito allo svolgimento di mansioni superiori per periodi di tempo frazionati di modo che non venga mai superato il limite temporale predetto.
Consapevole di tale rischio, la giurisprudenza di legittimità ha però più volte affermato che le revoche dell’assegnazione a mansioni superiori reiterate, sistematiche ed artificiali in assenza di una reale esigenza organizzativa costituiscono condotta datoriale oggettivamente elusiva della legge, che deve essere sanzionata mediante l’unificazione per sommatoria dei diversi periodi ai fini della promozione automatica (in questo senso per es. vedi Cass. n. 2542/2009; Cass. n. 9550/2007 e Cass. S.U. n. 1023/1995).
Nel caso di specie, un lavoratore aveva adito il Tribunale di Milano al fine di sentir accertare il suo diritto all’inquadramento superiore, con conseguente condanna della società al riconoscimento delle relative differenze retributive, sostenendo a fondamento della propria domanda di essere stato assegnato reiteratamente a mansioni superiori con cadenza trimestrale, seppur in maniera non continuativa.
Il Tribunale milanese aveva rigettato il ricorso del lavoratore il quale era invece risultato vittorioso in appello. Interpellata sul punto, la Suprema Corte ha confermato la statuizione della Corte d’Appello ed ha ribadito il principio secondo cui la “sistematicità e la frequenza di reiterate, ma frazionate, assegnazioni di un lavoratore allo svolgimento di mansioni superiori - il cui cumulo sia utile all'acquisizione del diritto alla promozione automatica in forza dell'art. 2103 c.c. - può integrare un intento datoriale fraudolento volto ad impedire la maturazione del diritto alla promozione automatica”.
Tuttavia, affinché possa ravvisarsi tale fattispecie – ha precisato la Corte - occorre che, anche senza evidente intento fraudolento del datore di lavoro di impedire la maturazione del diritto alla promozione automatica, il lavoratore dimostri una iniziale programmazione da parte del datore di lavoro dei molteplici incarichi e la predeterminazione utilitaristica di tale comportamento.
Poiché nel caso di specie il conferimento delle mansioni superiori era avvenuto con particolare frequenza e sistematicità ed al fine di far fronte ad una esigenza strutturale e non contingente del datore di lavoro, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società e confermato il diritto del dipendente ad essere inquadrato nel livello superiore.
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