Il lavoratore non può essere licenziato per aver dichiarato fatti non veri nelle proprie difese in sede disciplinare

18 settembre 2017

Un lavoratore sottoposto ad un procedimento disciplinare, nel rendere le sue giustificazioni, non ha l’obbligo di dire la verità ed inoltre può difendersi anche muovendo accuse infondate nei confronti di altre persone, ed in particolare nei confronti del proprio datore di lavoro.

Ciò è quanto si ricava da una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la n. 13383, del 26.5.2017.

La Cassazione ha preliminarmente osservato che il diritto di critica del lavoratore non incontra il limite, come quello di cronaca, di obbligo di narrazione veritiera dei fatti, in quanto comporta l'espressione di un giudizio o un opinione su cose o persone, opinione che, proprio perché tale, non può essere rigorosamente valutata in termini di verità e obiettività (cfr. Cass. n. 13646/06). In altre parole, rispetto ad una critica (per sua natura soggettiva, essendo espressione di convincimenti e valutazioni personali del dichiarante) neppure si pone l'alternativa vero/falso, che rileva - invece - nell'esercizio del diritto di cronaca. Al più nell'esercizio del diritto di critica può pretendersi la verità (sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive) solo dei fatti presupposti e oggetto della critica medesima.

La Corte ha poi spiegato che ancora diverso, e meno limitato, è il diritto di difesa, quale quello che il lavoratore spende nel procedimento disciplinare a suo carico.

La fattispecie sottoposta all'esame della Corte può essere, schematicamente, così riassunta: un lavoratore riceveva una contestazione disciplinare e, per discolparsi, formulava, nei confronti di un suo superiore, accuse, che però si rivelavano infondate. In particolare accusava il suo superiore di avere illegittimamente esercitato i propri poteri e di avere dolosamente intrapreso una guerra contro di lui. Accertata tale infondatezza, l'azienda promuoveva un secondo procedimento disciplinare - e cioè quello oggetto della causa decisa con la sentenza in commento - nel quale, appunto, essa addebita al dipendente di aver formulato tale infondate, e quindi ingiuste accuse; il procedimento si concludeva con il licenziamento.

La Cassazione, ha confermato la sentenza della Corte d'appello di Napoli, che reintegrava il lavoratore, ai sensi dell'art. 18, comma 4, Stat. lav.

Il Giudice di legittimità in motivazione spiega che l'esercizio del diritto di difesa - coperto da intangibile garanzia, in forza dell’art. 24 Cost. anche in sede di procedimento disciplinare L. n. 300 del 1970 , ex art. 7 - non è affatto condizionato ai requisiti di verità, continenza e pertinenza, requisiti che invece attengono all'esercizio di ben diverso diritto (quello di cronaca) e servono a scriminarne eventuali profili di diffamazione. Né, sempre secondo la Corte, sono applicabili alla fattispecie i principi in materia di diritto di critica, che, può incontrare solo i limiti della pertinenza e della continenza.

Ciò porta la Cassazione ad escludere che, in sede di procedimento disciplinare, al lavoratore possa essere addebitata la commissione del delitto di diffamazione o di altro reato, poiché questo resterebbe comunque discriminato dall’esercizio del diritto di difesa e, dunque, da un’esimente che ha validità generale nell’ordinamento e non limitata al mero ambito penalistico.

Tale ricostruzione del diritto di difesa, sempre secondo la Corte, è obbligata in quanto, nella contraria ipotesi, non si vede come sarebbe possibile difendersi in sede disciplinare negando gli addebiti, perché ciò di per sé potrebbe essere sempre letto come implicita accusa di abusi da parte del datore di lavoro e, per ciò solo, fungere da fonte di ulteriore responsabilità disciplinare e/o penale.

In altre parole, il diritto di difesa, di cui all’art. 7 della L. n. 300 del 1970, e l’art. 24 Cost., da garanzia per l'incolpato, si trasformerebbe sempre, di fatto, in ulteriore occasione di responsabilità anche se esercitato in modo civile, pertinente e continente.

Diversamente opinando, spiega la Corte, “per simmetria dovrebbe ritenersi del pari non scriminato dall'esercizio di altro diritto (quello relativo al potere disciplinare, riconosciuto al datore di lavoro dall'art. 2106 cod. civ. ) già il solo fatto di attribuire al dipendente condotte dolose astrattamente suscettibili di integrare gli estremi d'un reato (oltre che d'una infrazione disciplinare).Ma - a tutta evidenza - in tal modo si darebbe luogo a scenari giuridicamente contraddittori e insensati.”.

Da ultimo, la Suprema Corte di Cassazione, consolida ulteriormente l’orientamento secondo cui, ai fini della tutela reintegratoria ex Legge Fornero, deve ritenersi insussistente il fatto contestato se privo dell’illiceità sul piano disciplinare, perché sostanzialmente non apprezzabile sotto tale profilo. Come si legge, infatti, in motivazione “per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 141/06) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (…..).

E tutte le eccezioni, proprio perchè tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall'attore).

In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.

Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 Stat., nonchè di compatibilità costituzionale.

Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l'illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, comma 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.

L'esito sarebbe quello d'una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost. , oltre che d'una intrinseca e inspiegabile aporia all'interno della medesima disposizione di legge.”.

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