Il licenziamento del lavoratore che ha commesso un illecito per adempiere all’ordine di un superiore gerarchico

25 ottobre 2018

La giusta causa di licenziamento, come noto, è quella che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.

Con una pronuncia recente la Suprema Corte ha ricondotto a tale fattispecie il caso di un lavoratore che aveva commesso un atto illecito, seppure adempiendo all’ordine del suo superiore gerarchico, considerando che il lavoratore stesso era in grado di comprendere l’illegittimità di tale ordine.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza n. 23600 del 28 settembre 2018, ha statuito che l'esecuzione di un ordine illegittimo impartito da un superiore gerarchico non vale a scusare la condotta del dipendente che vi abbia acconsentito, consapevole della natura illecita dell'ordine. Ciò, spiega la Corte, considerando che non è applicabile ai rapporto tra privati la scriminante di cui all’art. 51 c.p., che invece rende non punibile colui che commette un reato nell’esecuzione di un ordine ricevuto dalla pubblica autorità.

Il caso trattato dalla Corte riguardava, in particolare, un lavoratore di una società licenziato per aver contabilizzato alcuni lavori, in realtà non eseguiti dalla società, in esecuzione di un ordine impartitogli dal proprio superiore gerarchico in una riunione a cui avevano partecipato altri colleghi.

Illicenziamento era stato impugnato dal lavoratore e le Corti di merito investite della decisione avevano accolto il ricorso, dichiarando l'illegittimità del licenziamento comminato dalla società datrice e condannando quest'ultima alla reintegra, per la non configurabilità del dolo e colpa nella condotta del dipendente che si era limitato all'osservanza degli ordini ricevuti.

Di contrario avviso la Corte di Cassazione che, come anticipato, ha ritenuto che il dipendente sottoposto avrebbe dovuto rendersi conto che l'ordine impartito dal proprio superiore costituiva una evidente violazione delle procedure amministrative e contabili aziendali, oltre che dei principi e delle regole poste dal codice etico. Il lavoratore, dunque, avrebbe dovuto opporre alla richiesta illecita un rifiuto, o, quantomeno, una contestazione.  

La Corte ha pertanto confermato il licenziamento per giusta causa ritenendo che la società non potesse più fare affidamento sul corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore, essendosi quest’ultimo “posto supinamente, ove anche non intenzionalmente, in condizioni di violare in modo ripetuto i doveri di diligenza e fedeltà”.

Il tema è senz’altro delicato, considerando che la titolarità del potere direttivo in capo al datore di lavoro, e dunque ai superiori gerarchici da questo preposti, caratterizza su tutti gli altri elementi l’essenza stessa della subordinazione. Non è un caso, infatti, che il principale indice utilizzato per identificare il datore di lavoro sia proprio la ricerca del soggetto che esercita effettivamente tale potere, in quanto, tranne i casi di somministrazione di lavoro e distacco temporaneo, esso coincide sempre con il reale titolare del rapporto. La centralità del potere direttivo nel rapporto di lavoro subordinato fa si che l’adempimento del lavoratore (rendere la prestazione di lavoro) si traduca nel dovere di obbedienza (rendere la prestazione secondo direttive altrui) e che le ipotesi di rifiuto consentite dall’ordinamento siano davvero poche, anche a fronte di direttive illegittime o addirittura nulle (si pensi all’assegnazione di mansioni inferiori, atto nullo a fronte del quale però il lavoratore non può opporre il rifiuto a prestare l’opera). La sentenza della Corte segna dunque un ulteriore punto di confine in cui il dovere di obbedienza viene meno (un’altra ipotesi, ad esempio, è quella in cui il rifiuto sia necessario a salvaguardare la salute e sicurezza del prestatore di lavoro): quello dell’ordine che costringa il lavoratore a condotte civilmente illecite nel caso almeno in cui esse abbiano un connotato di rilevante gravità che sia al lavoratore riconoscibile.

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