La Corte di Cassazione, con una recente pronuncia del 07.01.2020, n. 113/2020, ha confermato il principio secondo cui, in caso di contestazioni disciplinari multiple, il giudice può valutare che anche una sola di esse giustifichi il licenziamento, restando a carico del dipendente dimostrare che solo il complesso delle infrazioni contestate è riconducibile alla nozione legale di giusta causa.
Il caso esaminato dalla Corte è stato quello di un socio lavoratore di cooperativa destinatario di una serie di contestazioni disciplinari, il cui licenziamento disciplinare era stato ritenuto giustificato da una sola di esse.
La Corte del merito, infatti, aveva ritenuto accertato dall’espletata istruttoria l’addebito a carico del socio lavoratore costituito dall’accusa rivolta all’ex presidente della cooperativa di essersi indebitamente appropriato della somma di € 36.000,00. Secondo la Corte, tale accusa si configurava quale giusta causa di recesso rappresentando grave negazione dei doveri propri del socio lavoratore e primo fra tutti quello di subordinazione, dovendo quindi ritenersi integrata l’ipotesi di “grave insubordinazione verso i superiori”, di cui al CCNL applicato.
La difesa del lavoratore sosteneva invece che, poiché al dipendente erano state contestate una pluralità di condotte concatenate, l’integrazione della giusta causa doveva ritenersi sussistente solo ove fosse stata acquisita al giudizio la prova del complesso degli episodi addebitati e non sulla base di uno solo di essi.
La Suprema Corte di Cassazione, investita del caso, ha ribadito il proprio orientamento secondo il quale “qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (Cass. n. 18836 del 2017, Cass. n. 12195 del 2014)”.
Affrontando il caso la Cassazione ha altresì ribadito che “l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio all’impresa (Cass, n. 21649 del 2016), rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume valore diffamatorio”.
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