Il licenziamento intimato durante il periodo di comporto è nullo e non meramente inefficace

01 agosto 2018

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, ovvero una situazione idonea di per sé a consentirlo e se intimato prima del superamento di detto periodo è ab origine nullo per violazione dell'art. 2110, comma 2 cod. civ. e non meramente inefficace.

Con la pronunzia in commento la Suprema Corte di Cassazione fa definitiva chiarezza sul tema del licenziamento intimato prima del c.d. periodo di comporto, anche se il contrasto era solo apparente.

Ricordiamo, brevemente, che il nostro ordinamento mira a trovare un punto di equilibrio componendo nell'art. 2110, secondo comma, due opposti interessi, ovvero quello del lavoratore a conservare il lavoro nonostante la malattia, e quello del datore di lavoro a ricevere la prestazione lavorativa e reintegrare la foza-lavoro in presenza di eventi morbosi particolarmente lunghi.

Cosicché il lavoratore ha certo diritto a conservare il posto di lavoro in caso di malattia, ma per un periodo di tempo (continuativo e/o frazionato) limitato, stabilito dalla contrattazione collettiva di riferimento.

Il tempo di conservazione del rapporto lavorativo, durante il quale non può essere intimato il licenziamento per il solo fatto della malattia (potendo il recesso datoriale intervenire per altre ragioni), è chiamato periodo di "comporto" ed è abbastanza lungo da superare la normale incidenza della malattia.

Nella vicenda affrontata con la sentenza in commento (SS.UUU n. 12568/2018) il datore di lavoro, per un errore di conteggio, aveva intimato il licenziamento prima della scadenza del comporto e i giudici di merito avevano ritenuto tale licenziamento temporaneamente inefficace sino alla maturazione del periodo.

La sentenza presenta interesse perché è molto argomentata, offrendo chiarimenti anche su aspetti diversi da quello strettamente in discussione.

In primo luogo la Suprema Corte, pur essendo stata chiamata ad intervenire a Sezioni Unite, attenua la reale sussistenza di un contrasto giurisprudenziale ricordando come le uniche sentenze nelle quali era stata statuita la temporanea inefficacia del licenziamento sino allo scadere del comporto (Cass. 1657/93 e 9037/01) riguardavano licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso ed autonomo dal mero protrarsi della malattia, mentre già esisteva un precedente delle stesse SS.UU. (Cass. SS.UU. 2072/80) che stabiliva il principio oggi ribadito.

La Corte ricorda poi come il licenziamento di cui parliamo sia, sotto il profilo ordinatorio-classificatorio, una fattispecie autonoma, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa dalle altre conosciute (giusta causa e giustificato motivo).

Infatti - annota la Corte - il mero protrarsi delle assenze oltre il limite stabilito di per sé non costituisce inadempimento (essendo pur sempre le assenze giustificate), né è necessario, per intimare questo licenziamento, che sia accertata una incompatibilità tra le assenze e l'assetto organizzativo o tecnico-produttivo, ben potendo farvisi luogo anche quando il rientro non avrebbe ripercussioni.

Venendo alle ragioni del perché il licenziamento in parola sia nullo e non temporaneamente inefficace, esse si fondano su ragioni di coerenza dogmatica all'interno della teoria generale del negozio giuridico.

Sposare la teoria della inefficacia del licenziamento, vorrebbe dire ammetterne la validità, consentendo un recesso sostanzialmente acausale (nella accezione giuslavoristica del termine), ovvero disposto al di fuori delle residue ipotesi nelle quali ciò è possibile (ricordiamolo: lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultra sessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).

E sarebbe anche un modo per aggirare la ratio dell'art. 2110, coma 2 cod. civ., che è quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia (o infortunio) senza perdere l'occupazione.

Il carattere imperativo della norma non consente dunque opzioni interpretative diverse dalla nullità, essendo il valore della tutela della salute certamente prioritario all'interno dell'ordinamento, e non potendo essere protetto in modo adeguato se non ponendo degli argini, rappresentati nel caso di specie dai "tempi sicuri" entro i quali il lavoratore potrà fruire delle terapie più opportune senza il timore di perdere il posto di lavoro.

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