Nel corso dell’ultimo decennio, nel linguaggio comune come nelle aule dei tribunali, si è assistito alla diffusa tendenza a ricondurre ogni situazione di disagio sul posto di lavoro, o ogni condotta illecita del datore, alla fattispecie del mobbing. Tale fattispecie, tuttavia, ha connotati precisi e ben definiti. Il mobbing, in senso proprio, consiste in una serie di condotte vessatorie, continue e protratte nel tempo, di carattere persecutorio, poste in essere dal datore di lavoro o da altri dipendenti nei confronti di un lavoratore, con il fine specifico della sua emarginazione o mortificazione morale e che hanno come effetto la lesione della sfera professionale o personale della vittima.
Anche grazie al dibattito sulla nozione di mobbing, peraltro, è emersa la consapevolezza circa la necessità di riconoscere - e sanzionare – quelle fattispecie che, pur non costituendo mobbing (a causa della mancanza degli elementi di cui si è detto), sono suscettibili di ledere diritti di valore costituzionale del lavoratore. In tale contesto, in particolare, si è iniziato a parlare di straining, generalmente descritto come una situazione di stress forzato sul posto di lavoro in cui la vittima subisce azioni ostili, limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (e per questo non riconoducibili al mobbing), ma tali da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa della vittima.
La differenza principale tra mobbing e straining, dunque, è nel fatto che mentre il primo è configurabile solo in presenza di condotte sistematiche di carattere persecutorio, il secondo può essere realizzato anche mediante un solo atto, a condizione che esso sia oggettivamente suscettibile di causare nei confronti del lavoratore una situazione di stress forzato e duraturo.
Nella recente sentenza 7844/2018, ad esempio, la Corte di Cassazione ha ricondotto a straining il caso di un dipendente di banca che, dopo essere stato demansionato ed in conseguenza del demansionamento stesso, era stato allontanato dalla direzione generale (peraltro con modalità lesive della sua immagine professionale) e aveva ricevuto alcune lettere di scherno da parte dei superiori, poi diffuse anche tra i colleghi. La Corte ha ritenuto che, a causa del numero ridotto delle condotte poste in essere ai danni del lavoratore, del fatto che esse fossero distanziate nel tempo e a causa della mancanza di un preciso intento persecutorio ai danni del lavoratore medesimo, non potesse parlarsi di mobbing. La costante e permanente modificazione in negativo della situazione lavorativa del dipendente, atta ad incidere sulla sua salute e causa di frustrazione personale e professionale, perdita di prestigio e stress, tuttavia, a giudizio della Cassazione, erano idonee a configurare la fattispecie di strainig, con diritto del lavoratore al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che ne erano derivati (più lievi di quelli che normalmente derivano dal mobbing, ma comunque meritevoli di ristoro).
Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, deve osservarsi che la crescente attenzione per fenomeni come mobbing e straining ed i lodevoli tentativi di tutelare, anche nell’ambito del rapporto di lavoro, i diritti non patrimoniali del lavoratore, non sono stati accompagnati da riflessione altrettanto accurata circa le misure idonee a riparare i danni che gli illeciti possono causare. Non è infatti raro, ancor oggi, imbattersi in sentenze che, pur riconoscendo che il lavoratore è stato vittima di mobbing o straining, liquidino il risarcimento dei danni in suo favore in somme quasi simboliche, specie se rapportate alla gravità delle condotte poste in essere nei confronti della vittima ed alla rilevanza dei diritti, di rango costituzionale, offesi, come il diritto alla salute psico-fisica ed alla dignità. L’auspicio è che nel prossimo futuro vi sia un’evoluzione di dottrina e giurisprudenza anche su questo fronte.
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