Con la recente sentenza n. 11169 del 9 maggio 2018, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui danni derivanti al lavoratore ove a questi sia illecitamente impedito di lavorare.
Nel caso di specie, un lavoratore, a seguito di licenziamento per ragioni disciplinari, aveva intentato causa alla ex datrice di lavoro, ottenendo sentenza che annullava il licenziamento e che ordinava la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. L’azienda decideva di impugnare il provvedimento giudiziale e, nel mentre – per un periodo durato complessivamente due anni – di corrispondere al lavoratore la retribuzione, ma senza riammetterlo in servizio.
Poiché gli ordini contenuti nelle sentenze di condanna sono efficaci anche in pendenze del giudizio di impugnazione e poiché la sentenza di reintegra veniva confermata anche nei gradi di giudizio successivi, la condotta della datrice di lavoro era da considerarsi sicuramente illegittima.
In questa fattispecie, così come in ogni altro caso in cui il datore di lavoro impedisca illegittimamente al lavoratore di lavorare, quest’ultimo ha diritto al pagamento della retribuzione, ma può anche richiedere il risarcimento di un danno ulteriore, di carattere non patrimoniale. La nostra Costituzione, infatti, declina il lavoro anche come DIRITTO del lavoratore e occasione di auto-realizzazione, a livello individuale e sociale, della persona. Il datore di lavoro che impedisca illegittimamente al lavoratore di esercitare tale diritto, pertanto, lede un interesse di rilievo primario del lavoratore.
Tanto premesso, non vi è unanimità di consensi, nella giurisprudenza, circa le conseguenze di tale illecito. In particolare, è discusso se esso sia di per sé produttivo di un danno non patrimoniale (o, detto in altri termini, se alla forzata inattività del lavoratore consegua automaticamente un danno risarcibile), oppure se il lavoratore, per ottenere un risarcimento, debba dare prova delle particolari conseguenze pregiudizievoli derivategli dalla condotta aziendale (il che, nei fatti, è tutt’altro che agevole).
La sentenza citata in esordio, con motivazione condivisibile e convincente, aderisce alla prima tesi, ormai prevalente.
La forzata inattività e l’esclusione dal contesto lavorativo del lavoratore, infatti, secondo la Cassazione, costituisce di per sé un impedimento alla prosecuzione della crescita professionale e motivo di stress e perdita di fiducia da parte del lavoratore, in ciò determinando la concretezza del danno.
Specifica poi la Corte di Cassazione, nella medesima pronuncia, che “Il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.”
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