In tema di trasferimento adottato in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, l'inadempimento datoriale non legittima automaticamente il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460, comma 2, c.c. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. Tale principio, invero già affermato in passato dalla stessa Corte di Cassazione (in questo senso si veda per es. C. Cass. n. 18866/2016), è stato di recente ribadito con la sentenza n. 11408 dell’11 maggio 2018.
Nel caso in esame, una lavoratrice trasferita da Roma a Torino era stata licenziata per essersi rifiutata di prestare servizio nella nuova sede assegnatale per insussistenza delle ragioni poste alla base del disposto trasferimento.
Il Tribunale ha ritenuto legittimo il recesso aziendale, mentre la Corte di appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità dello stesso sul rilievo che l’istruttoria espletata aveva dimostrato che il trasferimento della lavoratrice presso la sede di Torino non era riconducibile ad alcuna specifica esigenza aziendale e pertanto il rifiuto della lavoratrice di prestare servizio presso quest'ultima sede risultava giustificato dall'inadempimento datoriale realizzatosi con la violazione dell'art. 2103 c.c.
La Corte Cassazione, interpellata sul punto, ha osservato che “la questione del rifiuto del dipendente di adempiere al provvedimento datoriale di trasferimento ad altra sede, in quanto ritenuto illegittimo, si inquadra nel più generale tema degli effetti dell'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive nell'alveo del quale è riconducibile il contratto di lavoro”.
Secondo i Giudici di legittimità, pertanto, il trasferimento ad altra sede lavorativa disposto dal datore di lavoro in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive non giustifica in via automatica il rifiuto del dipendente all'osservanza del provvedimento e quindi la sospensione della prestazione lavorativa, questo perché l'inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo deve essere valutata alla luce del disposto dell'art. 1460, comma 2, c.c. secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.
Pertanto secondo la Suprema Corte, il Giudice di merito, a fronte di una eccezione di inadempimento come quella di cui sopra, deve procedere ad una “valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse” e, qualora egli rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato.
Stante quanto sopra, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di Appello, ritenendo che i giudici di merito avessero omesso di accertare se, nel caso concreto, l’inadempienza del datore di lavoro (costituita dal trasferimento illegittimo) era di gravità tale da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali della lavoratrice, la quale solo in tal caso poteva rifiutarsi di rendere la prestazione lavorativa presso la nuova sede.
Con la sentenza in esame la Cassazione ha così preso le distanze da quell’orientamento giurisprudenziale che si era affermato in passato, in base al quale era stato ritenuto che il trasferimento privo di ragioni tecniche, organizzative e produttive, integrando una condotta datoriale illecita, giustificherebbe di per sé la mancata ottemperanza da parte del lavoratore, sia in attuazione dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio (in questo senso cfr. C. Cass. 24/07/2017 n. 18178; C. Cass. 16/05/2013 n. 11927; C. Cass. 30/12/2009 n. 27844).
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