Immutabilità della contestazione disciplinare

12 dicembre 2016

Immutabilità della contestazione disciplinare: il principio non è violato ove il lavoratore abbia potuto esplicare il proprio diritto di difesa.

 

Una sentenza piuttosto recente della Suprema Corte Cassazione, la n. 15320 del 25 luglio 2016, ci consente di tornare su un argomento molto importante entro lo svolgimento del rapporto lavorativo, come l'esercizio del potere disciplinare. Sono molti gli aspetti che possono influire sulla validità di un provvedimento disciplinare. Affrontiamo oggi un aspetto particolare attinente alla fase della contestazione, ovvero quello noto come principio di immutabilità.

 

Accade con notevole frequenza che i provvedimenti disciplinari irrogati dal datore di lavoro vengano dichiarati illegittimi per varie ragioni.

Nell’esaminare le condizioni per un corretto esercizio del potere disciplinare è molto utile operare una netta distinzione tra requisiti “sostanziali” e requisiti “procedimentali”, con l’avvertenza che si tratta, in entrambi i casi, di presupposti essenziali, nel senso che la mancanza anche di uno solo di essi comporta la nullità della sanzione.

Il potere disciplinare attribuito al datore di lavoro trova il suo fondamento nell’art. 2106 del codice civile, secondo cui l’inosservanza degli obblighi di diligenza e di fedeltà (sanciti rispettivamente dagli artt. 2104 e 2105 del cod. civ.) “può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”, espressione che rappresenta la consacrazione testuale di un fondamentale principio “sostanziale”, ovvero quello della “proporzionalità” (tra infrazione e sanzione).

Ma se al primo posto fra i presupposti sostanziali v’è la fondatezza del fatto addebitato, appare forse più importante sottolineare come spetti al datore di lavoro fornire la prova in merito, conformemente ai principi generali (spettando semmai al lavoratore provare l’eventuale impossibilità per causa non imputabile).

Passando invece ai requisiti “procedimentali”, sono così comunemente definiti quelli introdotti dall’art. 7 dello Statuto del Lavoratori.

E’ notazione comune come tale disposizione abbia sottoposto il potere disciplinare ad un vero e proprio “procedimento” finalizzato a garantire adeguatamente al lavoratore il proprio diritto di difesa.

Tra i molti requisiti previsti v’è la preventiva “contestazione” dell’addebito.

Si tratta di una imprescindibile esigenza (mutuata dal diritto penale): se devo esser messo in condizione di difendermi devo prima sapere di cosa sono accusato.

Ma ciò non basta, perché la contestazione deve avere alcune caratteristiche, anch’esse strettamente funzionali al diritto di difesa: “tempestività,” “specificità” e “immutabilità”.

A proposito della “immutabilità” dell’addebito, corollario del principio di specificità, esso vale, come gli altri, a presidiare il diritto di difesa del lavoratore incolpato.

Tale diritto sarebbe invero frustrato se fosse possibile per il datore di lavoro, dopo aver recepito le difese del lavoratore, poter, ad esempio, licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati.

Con riferimento alla tematica del licenziamento disciplinare, si tratta del principio noto anche come "cristallizzazione dei motivi di licenziamento", secondo il quale, rispetto agli addebiti contestati, il datore di lavoro non può successivamente muovere più alcun addebito (in ipotesi anche veritiero e fondato), poiché su quel nuovo profilo il dipendente non ha avuto modo di replicare.

Vi sono però alcune precisazioni da fare, alla luce della giurisprudenza.

Ad esempio, non sono precluse modificazioni dei fatti contestati relative a circostanze prive di valore identificativo della fattispecie di illecito disciplinare, ovvero la possibilità di addurre fatti ulteriori che configurino solo mere circostanze dell'addebito già contestato; o ancora la possibilità di considerare, nella valutazione della gravità della condotta, fatti analoghi commessi, confermativi della gravità di quelli posti a fondamento del licenziamento, anche se risalenti nel tempo, persino ove non contestati.

In sostanza, da tempo la Cassazione ha marcato i confini della "immutabilità" dell'addebito, i quali dovrebbero circoscrivere la contestazione senza con ciò impedire al datore di lavoro di prendere in considerazione altri fatti che, pur essendo estranei al procedimento in corso e non costituendo autonome cause di licenziamento, valgano a confermare i fatti addebitati.

Con la sentenza in commento, la Cassazione fa un ulteriore passo in avanti, stabilendo che la concreta possibilità per il lavoratore di esercitare il diritto di difesa anche in relazione alle circostanze "nuove" vale a sanare il procedimento sanzionatorio.

E allora, una volta di più, deve essere posta molta attenzione da parte del lavoratore a non essere uno strumento inconsapevole, andando con le proprie di fese nel merito a sanare una contestazione manchevole, anche sotto il profilo esaminato.

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