Con la sentenza n. 33027 del 20.12.2008 la Corte di Cassazione ribadisce che nel caso di procedimento disciplinare sfociato in licenziamento, quando quest'ultimo non risulti proporzionato alla gravità in concreto del fatto, è corretto dichiarare risolto il rapporto e riconoscere al lavoratore la sola tutela indennitaria.
Vediamo più nel dettaglio il caso oggetto del giudizio.
Il dipendente di un'impresa di assicurazioni viene accusato di aver spinto e strattonato la collega per convincerla ad uscire dall'ufficio.
L'azienda, ritenendo tale comportamento una violazione del codice etico, licenzia il lavoratore al termine di regolare procedimento disciplinare.
Su ricorso del lavoratore, il Tribunale di Milano dichiara il licenziamento illegittimo ed, applicando la tutela prevista dall'art. 18, quarto comma della legge n. 300/70, condanna il datore di lavoro a reintegrare il dipendente ed a pagargli un'indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal licenziamento sino alla effettiva reintegra, comunque non superiore a 12 mensilità, oltre accessori ed al versamento dei contributi previdenziali.
La Corte d'Appello, pronunciandosi sul reclamo proposto dall'azienda, ritiene invece di applicare la tutela prevista all'art. 18, quinto comma della legge n. 300/70, ovvero di dichiarare risolto il rapporto riconoscendo appunto al lavoratore una sola indennità risarcitoria.
Secondo il Giudice del reclamo, infatti, pur essendo i fatti contestati indubbiamente sussistenti nella loro materialità e pur rivestendo essi un rilievo disciplinare apprezzabile, tuttavia la presenza di altri fattori rendeva la sanzione applicata sproporzionata.
Indubbiamente il lavoratore, secondo la Corte, aveva violato il codice etico della società, rendendosi responsabile di un gesto odioso e contrario alle regole di corretto comportamento, anche con connotati di intimidazione psicologica, ma vi erano altre circostanze che dovevano essere prese in considerazione: i rapporti tra i due colleghi erano difficili da tempo, la collega vittima dello strattonamento aveva prima chiesto aiuto e poi lo aveva rifiutato solo perché il collega non era stato subito disponibile, si era trattato, da ultimo, di un episodio isolato commesso da un lavoratore privo di precedenti disciplinari che non aveva portato altre conseguenze sul piano lavorativo.
A questo punto, il lavoratore, ritenendo le previsioni del codice disciplinare idonee a legittimare solo una sanzione conservativa, è ricorso in Cassazione, la quale ha però confermato l'operato della Corte d'Appello.
La Suprema Corte spiega infatti come il Giudice, investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione di un licenziamento disciplinare, deve in primo luogo accertare la sussistenza in punto di fatto dell'infrazione contestata, deve poi verificare che la stessa sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso; in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia. A tal fine, prosegue la Suprema Corte, il Giudice deve tener conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi del fatto, ovvero il danno arrecato, il dolo o grado della colpa, i precedenti disciplinari ed ogni altra circostanza atta ad incidere sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti.
Archivio news