La Corte di Cassazione sull’annullabilità delle dimissioni

14 marzo 2019

Le dimissioni, come noto, sono un atto unilaterale con il quale il lavoratore interrompe per propria volontà il rapporto di lavoro, senza necessità di fornire una motivazione ma nel rispetto di un termine di preavviso determinato dalla contrattazione collettiva, preavviso non richiesto nella sola ipotesi di dimissioni per giusta causa (intendendosi per tale il grave inadempimento del datore).

Dal marzo 2016, il lavoratore che intende rendere le proprie dimissioni deve farlo esclusivamente online utilizzando appositi moduli predisposti dal Ministero del Lavoro da inviare al datore di lavoro (via pec) e all’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Le dimissioni rese con tale modalità possono essere revocate entro 7 giorni dalla data di trasmissione con le stesse modalità previste per l’invio. Decorso tale periodo, gli effetti della manifestazione di volontà del lavoratore di interrompere il proprio rapporto divengono definitivi.

Solo nel pubblico impiego, il lavoratore dimissionario può ottenere la revoca delle dimissioni e la riammissione in servizio a condizione che vi siano posti vacanti e a discrezione della amministrazione destinataria della richiesta di riammissione (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 132) . In tal caso, però, il rapporto di lavoro ricomincia ex novo, con perdita dell’anzianità pregressa.

Sia nel settore pubblico che privato, inoltre, vi sono casi in cui le dimissioni rese dal lavoratore possono essere annullate dal Giudice, con conseguente ricostituzione del rapporto interrotto. Ciò avviene, in particolare, quando queste sono rese da persona che – seppur non interdetta – “provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti” ai sensi dell’art. 428 c.c..

Per la Suprema Corte tale ipotesi ricorre anche nel caso in cui le dimissioni siano rese dal lavoratore in un momento di particolare turbamento e stress.

Tale principio è stato espresso dalla Corte con la recente sentenza n. 30126 del 21 novembre 2018, con la quale ha affrontato il caso di un dipendente comunale che si era dimesso nell’ambito di un contesto lavorativo difficile che gli aveva provocato una profonda insoddisfazione e uno stato di stress. Non solo, a causa dell’ambiente lavorativo ostile, il lavoratore aveva sviluppato talune patologie successivamente accertate.

I Giudici di merito, al contrario della Corte, non avevano ritenuto annullabili le dimissioni, in ragione dell’assenza di denunce relative a possibili comportamenti datoriali mobbizzanti o – comunque – illegittimi, circostanza che faceva ritenere la scelta di recedere dal rapporto un “epilogo consapevole di una condizione di malessere lavorativo”.

Di diverso parere, come anticipato, la Suprema Corte di Cassazione che ha ribadito come, ai fini dell’annullamento, non debba ritenersi essenziale la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del dimissionario, essendo sufficiente che si registri un mero “turbamento psichico che menomi la suddetta capacità” condizionando l’autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza “in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere”.

Dunque, ai fini della validità delle dimissioni, è necessario che il lavoratore risulti effettivamente in grado comprendere le conseguenze del proprio atto, ponderando la propria decisione; ove invece sia stata accertata una patologia psichica di carattere permanente, l’incapacità naturale del soggetto al momento del compimento dell’atto è dimostrabile per mezzo di mere presunzioni, gravando, per converso, in capo al datore l’onere di provare “l’esistenza di un eventuale lucido intervallo”, tale da consentire all’autore di rendersi conto della natura e dell’importanza dell’azione posta in essere.

Ove sia accertato uno stato di incapacità del lavoratore nel momento in cui ha reso le dimissioni, le stesse sono annullabili ma, si badi bene, il diritto a percepire la retribuzione spetta al dipendente solo a partire dalla data del ricorso in sede giurisdizionale, non estendendosi, invero, anche al periodo intercorrente tra le dimissioni rassegnate e l’instaurazione del procedimento. Diversamente, infatti, si finirebbe per retribuire il soggetto in “mancanza di attività lavorativa”; in altre parole, “l’efficacia totalmente ripristinatoria dell’annullamento del negozio unilaterale risolutivo del rapporto di lavoro non si estende al diritto alla retribuzione”.

 

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