Il licenziamento per giusta causa è la forma più grave di licenziamento disciplinare, mediante il quale il lavoratore viene allontanato “in tronco”, senza neanche diritto al preavviso. Ma in quali casi ricorre la giusta causa?
L’articolo 2119 del codice civile definisce giusta causa di recesso dal rapporto quella che non consente la prosecuzione neanche provvisoria dello stesso. Si tratta, evidentemente, di una definizione molto generica, che nel corso del tempo è stata riempita di contenuto dalla giurisprudenza. Ad esempio, è ormai assodato che rientra nella nozione legale di giusta causa un inadempimento molto grave del lavoratore ai suoi obblighi, come l’assenza ingiustificata dal lavoro per diversi giorni, oppure la grave insubordinazione o la commissione di un reato nei confronti del datore di lavoro. Ma vengono frequentemente ricondotti alla giusta causa anche fatti estranei al rapporto, se suscettibili di ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario tra azienda e lavoratore (si pensi al dipendente di banca con mansioni di cassiere, che potrebbe essere licenziato a seguito di una condanna per furto, pur se commesso fuori dall’orario di lavoro e nei confronti di soggetto diverso dal datore di lavoro).
Perfino in questi casi, peraltro, sarebbe sbagliato arrestarsi ad una valutazione puramente astratta della fattispecie: per costante insegnamento della Corte di Cassazione, il giudizio circa la sussistenza di una giusta causa di recesso dal rapporto deve essere compiuto in concreto, tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano il rapporto e, in secondo luogo, di quanto stabilito dal contratto collettivo.
Sotto il primo profilo, infatti, come evidenziato dalla Corte di Cassazione anche nella recente sentenza n. 22375 del 26.9.2017, nel giudicare la gravità di una certa condotta inadempiente del lavoratore, deve tenersi conto della natura ed utilità del singolo rapporto, della posizione delle parti, del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente (si pensi, ancora una volta, al cassiere di banca), del danno effettivamente causato dall’inadempimento, dei motivi della condotta e della gravità e intensità dell’elemento soggettivo (cioè del dolo o della colpa). Ne discende che uno stesso fatto potrebbe costituire giusta causa di licenziamento se compiuto da un dirigente (dal quale è lecito pretendere il massimo grado di diligenza e perizia) ed essere invece oggetto di una sanzione conservativa se compiuto da un apprendista.
Sotto altro profilo, anch’esso messo in evidenza dalla sentenza della Corte di Cassazione già citata, è consentito alle parti sociali, nella contrattazione collettiva, definire il concetto di giusta causa, anche tipizzando gli illeciti disciplinari. Ciò significa che, qualora, come spesso accade, il contratto collettivo applicato al rapporto preveda l’emissione di sanzioni conservative (o, al più, del licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo) per un dato comportamento, sarà illegittima la condotta del datore di lavoro che licenzi per giusta causa il lavoratore reo di aver tenuto quella stessa condotta. In questo senso, ad esempio, sarebbe illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato per un’assenza ingiustificata di tre giorni se il CCNL commina tale sanzione solo dal quarto giorno di assenza.
Anche il giudice è vincolato a quanto stabilito dal contratto collettivo, di modo che, nel valutare se la sanzione adottata dal datore di lavoro sia proporzionata rispetto all’illecito commesso dal lavoratore, dovrà anch’egli attenersi a quanto concordato dalle parti sociali.
Archivio news