Le dimissioni del lavoratore con contratto a termine illegittimo

13 giugno 2019

Nella recente sentenza 7318 del 14 marzo 2019 ha definitivamente chiarito quali siano le conseguenze giuridiche delle dimissioni del lavoratore da un rapporto a termine illegittimo, nel caso di successiva impugnazione del contratto. La sentenza è interessante anche per gli effetti che potrebbe avere in ipotesi diverse.

Nella fattispecie di causa, un lavoratore, nel corso di un rapporto di lavoro a tempo determinato, aveva dato le proprie dimissioni volontarie. Successivamente, lo stesso aveva impugnato il contratto a termine appena risolto, deducendone l’illegittimità e chiedendo la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con l’ex datore (cioè la sanzione che, insieme al risarcimento del danno, normalmente consegue all’accertamento dell’illegittimità del contratto a tempo determinato).

Il Tribunale di Roma aveva respinto la domanda del lavoratore, affermando che, rassegnando le dimissioni, il lavoratore aveva definitivamente rinunziato al rapporto di lavoro precedentemente in essere, precludendosi così la possibilità di chiederne, in un secondo momento, la ricostituzione in via giudiziale.

In secondo grado, la Corte d’Appello di Roma aveva ribaltato la decisione del primo giudice. Secondo la Corte, infatti, la volontà del lavoratore di cessare il rapporto a termine “non comprova la volontà di dismettere anche il rapporto a tempo indeterminato” che può essere costituito dal giudice all’esito della causa d’impugnazione. In altre parole, il giudice d’appello affermava che, sebbene fosse pacifico che il lavoratore aveva rinunziato al rapporto a termine, non era affatto dimostrato che egli intendesse rinunziare anche al rapporto a tempo indeterminato di cui aveva chiesto in causa la costituzione.

La Corte di Cassazione, infine, ha nuovamente mutato la decisione, affermando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare che le dimissioni dal rapporto a termine erano viziate da errore. Egli deve quindi dar prova del fatto che, se avesse saputo che il rapporto a termine poteva essere convertito in rapporto a tempo indeterminato, non si sarebbe dimesso. Ove tale prova manchi (come nel caso affrontato dalla Corte) le dimissioni precludono al lavoratore la possibilità di chiedere di ricostituire il rapporto che egli ha volontariamente estinto. La Corte precisa tuttavia anche lo stesso effetto non vale per la domanda di risarcimento del danno derivante dall’illegittimità del termine, domanda che può essere promossa dal lavoratore anche nel caso di dimissioni.

La soluzione di compromesso adottata dalla Corte, pur fondata su ragionamento non primo di una sua coerenza, rischia di scontentare tutti. Certamente esso non piacerà all’azienda che si vedrà convenuta in causa per riammettere in servizio un lavoratore che spontaneamente si era dimesso. Dall’altra, per il lavoratore sarà assai difficile dar prova che, al momento delle dimissioni, egli era intimamente convinto che il termine apposto al contratto fosse legittimo.

Così stando le cose, il lavoratore dovrà riflettere attentamente - e magari consultarsi con un legale - prima di dare le dimissioni dal rapporto a termine, poichè una decisione frettolosa potrebbe avere ricadute inaspettate.

Vale poi la pena osservare che il principio di diritto affermato dalla Cassazione ha come corollari alcune certezze e altri importanti interrogativi.

Sotto il primo profilo: il lavoratore che abbia impugnato il contratto a termine nel corso del rapporto (ipotesi non frequente, ma che talvolta si verifica) e che, in corso di causa, si dimetta, perderà sicuramente il diritto di chiedere la ricostituzione del rapporto, non potendo sostenere di non essere consapevole dei vizi del contratto.

I dubbi riguardano invece fattispecie diverse. Ad esempio: il collaboratore autonomo (ad esempio con contratto co.co.co.), oppure il lavoratore “al nero”, che pongano fine al rapporto di propria iniziativa, potranno successivamente far accertare la reale natura del rapporto, chiedendo di essere riammesi in servizio (come lavoratori subordinati)? Oppure le loro “dimissioni” pregiudicano tale possibilità?

La questione verrà affrontata in uno dei prossimi numeri!

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