È discriminatorio il licenziamento della dipendente che annuncia di assentarsi per sottoporsi a pratiche di fecondazione assistita - Corte di Cassazione 05.04.2016, n.6575
È nullo, perché discriminatorio, il licenziamento intimato alla lavoratrice che ha annunciato al proprio datore di lavoro l’intenzione di assentarsi qualche giorno per sottoporsi a pratiche di inseminazione artificiale. Questo è quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 6575/2016, che, confermando la decisione della Corte d’Appello, ha disposto la reintegra di una dipendente licenziata che aveva manifestato la propria intenzione di recarsi all’estero per sottoporsi a un programma di fecondazione assistita.
Per gli Ermellini non ci sono dubbi: il recesso intimato non rappresenta altro che l’illegittima reazione della Società alla decisione della lavoratrice di intraprendere un percorso che le avrebbe permesso di diventare mamma. Una condotta discriminatoria, legata all’essere ‘donna’, idonea a giustificare l’applicazione della tutela sanzionatoria più forte, ovvero il totale ripristino del rapporto di lavoro e il risarcimento del danno quantificato in misura pari alle retribuzioni che la lavoratrice avrebbe conseguito nel periodo compreso tra il recesso illegittimo e l’effettiva ripresa del servizio.
La prospettazione appena descritta, seppur decisamente rilevante, non rappresenta un’assoluta novità, quantomeno sul piano internazionale. La sentenza in esame, infatti, non fa altro che confermare quanto già stabilito dai giudici della Corte di Giustizia Europea, con sentenza 28 febbraio 2008, causa C - 506/06, per i quali “deve considerarsi discriminatorio il licenziamento intimato alla lavoratrice prima dell’impianto nell’utero degli ovuli fecondati in vitro, qualora sia dimostrato che il recesso costituisce una specifica reazione alla futura maternità della dipendente”. Per la Corte Europea, quindi, nella fattispecie descritta non deve trovare applicazione il divieto di licenziamento delle lavoratrici gestanti (espresso e contenuto nella direttiva n. 92/85), bensì la diversa tutela contro la discriminazione fondata su motivi di genere, riconosciuta dalla direttiva n. 76/207. È proprio in applicazione di tale principio che la Suprema Corte di Cassazione (confermando quanto già stabilito dalla Corte d’Appello di Roma) ha statuito “che l’annullamento del licenziamento della dipendente che intende sottoporsi a inseminazione artificiale non costituisce una forma anticipata di tutela per la malattia della lavoratrice, non ancora verificatasi, ma – piuttosto – si configura come la sanzione più appropriata da comminare nei confronti di un atto di natura discriminatoria”. Natura, quest’ultima, da valutare – secondo la Corte - in relazione al rapporto di causalità tra il trattamento di fecondazione e l’atto di recesso, a nulla rilevando l’effettiva realizzazione della pratica di inseminazione (ovvero se l’intervento sia già stato effettuato, sia in corso o, ancora - come nel caso affrontato dai giudici di legittimità - sia stato soltanto programmato e annunciato). In altre parole, dunque, quello che conta ai fini dell’applicazione della tutela discriminatoria è che il recesso sia stato intimato a seguito della manifestazione della volontà di intraprendere un percorso per avere un figlio. Ragione che, peraltro, non deve necessariamente rappresentare “l’unico motivo illecito determinante” del licenziamento (come previsto, invece, per la diversa fattispecie – spesso confusa e erroneamente equiparata – del recesso ritorsivo), trovando comunque applicazione la più forte disciplina discriminatoria anche il motivo oggettivo posto alla base della lettera espulsiva eventualmente sussista (nel caso di specie, “il riflesso negativo delle future assenze sull’organizzazione dello studio professionale”).
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