Il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro deve essere esercitato entro una cornice di legittimità, secondo i criteri della continenza sostanziale, materiale e formale, affinché il suo esercizio non si ponga in violazione dei valori della persona tutelati sia in Costituzione che da specifiche norme penali a difesa dell'onore, della reputazione e della riservatezza.
La suprema Corte di Cassazione ha emesso una sentenza ben argomentata, la n. 1379 del 18 gennaio 2019, con la quale illustra con chiarezza tutti i limiti entro cui può essere esercitato il diritto di critica del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, senza il rischio di incorrere in un licenziamento disciplinare.
Dobbiamo premettere che il diritto di critica trova il proprio fondamento nell'art. 21 della Costituzione, il quale riconosce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero, con il solo limite espresso, costituito dalla non contrarietà al buon costume, e con limiti impliciti legati al valore della persona umana di cui all'art. 2 della stessa Carta Costituzionale.
Nel caso di specie, un lavoratore aveva provveduto a trasmettere ad alcuni organi di stampa una lettera contenente aperte critiche alle scelte aziendali, risoltesi in uno spreco di danaro (il mancato utilizzo di un "autospurgo" del costo di 300.000 euro al solo scopo di far ricorso a delle ditte esterne).
L'azienda, ritenute diffamatorie le critiche espresse dal lavoratore, aveva provveduto a comminargli un licenziamento per giusta causa.
La Corte d'Appello di L'Aquila, accogliendo parzialmente il reclamo proposto ex lege n. 92/2012, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento, pur dichiarando risolto il rapporto.
Secondo la Corte distrettuale, il lavoratore avrebbe trasmesso ai vertici aziendali e agli organi di stampa una lettera contenente affermazioni che, pur considerate dall'azienda stessa diffamatorie, apparirebbero in realtà come "riconducibili nell'ambito del legittimo diritto di critica, senza assumere carattere gratuitamente diffamatorio e/o calunniatorio".
Inoltre, la stessa Corte aveva ritenuto sussistere un'evidente sproporzione tra le infrazioni contestate e la massima sanzione espulsiva.
Su ricorso della datrice di lavoro la questione è quindi approdata all'esame della Suprema Corte, la quale ha per prima cosa tracciato i confini di esercizio del diritto di critica (fondato, come detto, anzitutto sull'art. 21 della Costituzione), ricordando in particolare i noti criteri di continenza sostanziale, materiale e formale, dove per continenza sostanziale si intende la verità della notizia, per continenza materiale l'interesse pubblico alla diffusione dell'informazione e per continenza formale la correttezza e civiltà della forma linguistica utilizzata come veicolo della cronaca stessa.
Nell'ambito del rapporto lavorativo, considerando anche la dichiarazione di principio contenuta nell'art. 1 della L. 300 del 1970, secondo cui tutti i lavoratori hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero su luogo di lavoro, il diritto in questione è certamente garantito, ma ovviamente, come recita lo stesso Statuto dei Lavoratori, pur sempre nel rispetto dei principi della Costituzione.
Non può dunque negarsi l'esercizio di espressioni critiche del dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro, anche se il vincolo di subordinazione impone al lavoratore obblighi di fedeltà e collaborazione.
Sin dal 1986 - ricorda la Cassazione (sent. n. 1173/1986) - sono state elaborate regole, analoghe all'esercizio del diritto di cronaca (dove vige il c.d. decalogo), tese a contemperare il diritto stabilito dalla Costituzione con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale, tra i quali, in particolare, i diritti della personalità, all'onore, alla reputazione, stabilendo che il comportamento del lavoratore che divulghi fatti ed accuse che, ancorché vere, siano idonee a ledere l'onore e la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica quale espressione del diritto di libera manifestazione del pensiero e può configurare un fatto illecito e per ciò stesso consentire il recesso, ove l'illecito risulti incompatibile con l'elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto (si pensi alle condotte imputabili a titolo di dolo che, per le modalità di veicolazione, non trovino adeguata e proporzionale giustificazione nell'esigenza di tutelare interessi di rilevanza almeno pari al bene oggetto della lesione).
Successivamente si è specificato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 c.c. , e può costituire giusta causa di licenziamento ( v. Cass. n. 11220 del 2004; Cass. n. 29008 del 2008; Cass., n. 23798 del 2007; Cass. n. 21362 del 2013; Cass. n. 19092 del 2018).
Ancora, più di recente si è affermato (cfr. Cass. n. 5523 del 2016) e ribadito (cfr. Cass. n. 14527 e 18176 del 2018) che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dall'art. 21 Cost., incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicché, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, così come l'attribuzione di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.
Per completezza, si ricorda poi che nell'ipotesi di critica espressa da lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda v'è un'ulteriore copertura costituzionale costituita dall'art. 39 Cost., nel momento in cui l'espressione di pensiero è finalizzata al perseguimento di un interesse collettivo, sicché si è affermato che il lavoratore sindacalista è titolare di due distinti rapporti con l'imprenditore: come lavoratore, in posizione subordinata con il datore di lavoro, e come sindacalista, invece in una posizione parificata a quella della controparte in virtù delle richiamate garanzie costituzionali ( Cass. n. 11436 del 1995; Cass. n. 7091 del 2001; Cass. n. 19350 del 2003; Cass. n. 7471 del 201 2; Cass. n 18176 del 2018).
Infine, nel caso dì condotta del lavoratore che denunci all'autorità giudiziaria o amministrativa fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro, non è giustificato il licenziamento, salvo che risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza dell'insussistenza dell'illecito, sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti Cass. n. 4125 del 2017; conf. Cass. n. 22375 del 2017).
Nello specifico, la Cassazione ha accolto il ricorso aziendale in quanto il Giudice dell'appello ha mancato di spiegare le ragioni per le quali l'affermazione del dipendente non avrebbe avuto un effetto lesivo dell'onore e della reputazione aziendali.
Archivio news